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Le biblioteche sono costrette a cambiare per non morire

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– Dalla Central di Seattle alla Central di Helsinki, dalla NAA di Hilversum alla Bibliotheek di Gand, dalla Public di Amsterdam alla Library and Culture House di Vennsla in Norvegia, dalla Central di Vancouver alla Black Diamond di Copenhagen. Si moltiplicano le sedi preposte all’annullamento dell’illiteracy e del digital divide per giungere al cosiddetto global knowledge.

L’interesse per la realizzazione di nuovi contenitori, nei quali anche l’offerta si concretizzi in qualcosa di assai poco tradizionale, è senza dubbio crescente. Tante, nuove biblioteche, mediateche e digital cultural institutions, inaugurate nelle nazioni e nelle città più attente ai temi dell’innovazione, dell’educazione, dell’inclusione sociale e della coesione comunitaria. Non argomenti per pochi intellettualoidi, autoreferenziali, riuniti in gruppetti, ma temi di grande rilevanza. In un’epoca nella quale il 30% dell’umanità dispone di una connessione internet e il 90% di un telefono cellulare. Strumenti che inevitabilmente hanno modificato radicalmente le modalità di conservazione, creazione e condivisione delle informazioni.

L’avanzata del digitale non ha comportato l’estinzione di quei luoghi di silenzio e meditazione che sono le biblioteche. Ma ne ha provocato un ripensamento delle missioni, dei servizi, delle tecnologie e degli spazi. Favorendo una decisa azione di rilancio, con consistenti investimenti. La migliore dimostrazione del radicamento quasi capillare di questo “fenomeno digitale” sta nella constatazione che essi trovano modo di esplicitarsi non soltanto nelle sedi più imponenti, ma anche in una miriade di avamposti locali che rispondono a istanze capitali.

Un esempio per tutti? Il progetto di Sergio Dogliani, un emigrato che ha inventato nel Regno Unito un nuovo formato di biblioteche civiche, partendo dai quartieri più disagiati di Londra: le Idea Stores. Casi nei quali il digitale è stato prima percepito e poi è diventato un’eccezionale opportunità per favorire la nascita di una nuova generazione d’istituzioni culturali. Nella quale si fondono le funzioni originarie di musei, biblioteche e archivi.

Quel che altrove, in Europa, ma non solo, è parte integrante di una collaudata politica culturale, da noi è ancora una scelta episodica. Qui le biblioteche si segnalano soprattutto per i tagli subiti. Con il budget delle statali passato dai 182,6 milioni di euro del 2000 ai 138,5 previsti per il 2013. Con quello delle civiche collassato ancora di più. Non di rado a fare notizia sono poi le chiusure. Proprio come accaduto, ad esempio, all’Universitaria di Pisa.

Le biblioteche più “piccole”, quelle che per esempio costituiscono dei presidi in tanti quartieri di Roma, in molti casi sono allo stremo. Ridotte a sopravvivere. A galleggiare, spesso, nell’indifferenza delle istituzioni. È lì che, forse ancora più che altrove servirebbe costruire delle biblioteche efficienti, moderne. Come a Gand, Copenaghen e Seattle. Sarebbe vitale che si riuscisse a fare a Roma come a Milano, a Napoli come a Torino e Reggio Calabria. E in molte altre città.

Il Belpaese non è un deserto, qualcosa c’è. A metà marzo, a Mestre è stata inaugurata VEZ, una nuova biblioteca pubblica di 2.000 metri quadri integralmente coperti da wifi. Nella quale, oltre ai servizi tradizionali, è possibile accedere a una Media Library On Line con decine di migliaia di quotidiani italiani e stranieri. Ma a parte casi episodici il tessuto connettivo del Paese è mal innervato da presidi culturali nei quali il digitale non è costituito che da qualche postazione internet.

Bisogna sforzarsi di concepire spazi fisici assai diversi da quelli del passato. Luoghi accoglienti, inclusivi e sostenibili. Attenti alle esigenze di un pubblico eterogeneo. Luoghi nei quali abbiano sempre maggiori difficoltà a trovare spazio figure oscure come quella di Marino Massimo De Caro, il demone dei Girolamini. Per tutto questo non servono soltanto investimenti cospicui. Ma anche, prima di tutto, una visione sul futuro.


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